Vent’anni fa cadeva il Muro di Berlino, imprimendo una svolta decisiva alla nostra storia. Abbiamo ancora oggi negli occhi le immagini dei giovani tedeschi che abbattevano con mazze, martelli o a mani nude un muro che sembrava invalicabile. Un muro che segnava un confine simbolico, come del resto sono tutti i confini, ma che in questo caso esprimeva una forza drammatica: quella di dividere due mondi in base ad un valore fondamentale, che è la libertà. La caduta del muro di Berlino rappresenta la prova più evidente che, alla fine, il motore della storia è la ricerca di ogni individuo verso la libertà. Ed è stupefacente venire a conoscenza tramite alcune testimonianze – magari tardive, ma molto significative, come quella di Jaruzelski – di quante resistenze la caduta del Muro avesse suscitato non tanto nei governi dell’Europa orientale, bensì fra i potenti delle democrazie occidentali. A partire da un campione del liberismo europeo quale Margaret Thatcher, preoccupata che l’unificazione tedesca mettesse a repentaglio gli equilibri geo-politici consolidati dalla guerra fredda. Ma anche Mitterand e Andreotti avevano manifestato molte contrarietà per un processo di liberazione celebrato a parole, ma temuto nei fatti. Queste ipocrisie sono state spazzate via dalla storia. Perché se la storia ha un senso, è proprio la ricerca della libertà: quando una società esercita questa spinta, non c’è equilibrio geo-politico o ragion di stato che possa fermarla. Sarebbe tuttavia un errore credere che questa energia vitale animi sempre e comunque le società. In realtà, caduto il Muro di Berlino, l’Europa sembra oggi attraversata da tanti piccoli muri che segnano la paura di perdere supremazia e identità di fronte ad un mondo che corre molto più veloce. Che poi sopra questi muri venga spesso alzata la bandiera della libertà – come usano fare i movimenti populisti e xenofobi – ci dice solo che l’ipocrisia ha sempre un posto riservato nel palcoscenico della storia.
Giancarlo
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