Via via che la crisi economica avanza, procede anche la nostra conoscenza sulle sue cause. Per il momento, tale conoscenza non ci è ancora molto di aiuto per superare i gravi problemi che la crisi ha creato. Tuttavia, migliorare la nostra capacità di comprensione è necessario per ridurre la probabilità che un evento simile si ripeta, e ci fornisce qualche indicazione anche sulle strade future per uscirne.
Di questo si è parlato lo scorso 3 giugno a Padova, in occasione della presentazione del nuovo numero di Economia e Società Regionale, rivista trimestrale che dal 2009 è diretta da Enzo Rullani. “Guardare la crisi con altri occhi” è il messaggio che la rivista propone. Questo significa, innanzitutto, guardare sotto la superficie di una crisi che, come ha ripetuto Rullani, non è solo finanziaria, ma è l’accumulazione di ben tre crisi assieme: di domanda, di competitività, di sostenibilità.
La crisi esplosa nel 2008 ha fatto emergere processi di cambiamento che l’economia stava incubando da tempo, ma che i vecchi schemi culturali e gli equilibri politici del ‘900 non volevano riconoscere. In tale prospettiva ci sono tre questioni su cui questa crisi ci induce a riflettere. La prima riguarda lo spostamento geografico dell’asse dello sviluppo. I potenziali diffusivi della conoscenza stano dilatando il campo di utilizzo dell’innovazione, e anche questo spiega l’irrompere di “paesi in via di sviluppo” come Cina, India e Brasile nella scena mondiale. La possibilità di adottare le tecnologie più avanzate, unite a vantaggi di costo e alle economie di scala demografica, daranno a questi paesi un ruolo sempre più centrale nell’economia del futuro.
La seconda questione tocca la struttura interna delle economie avanzate, in particolare il peso di alcuni settori che hanno svolto una funzione guida dello sviluppo moderno, come l’automotive, l’industria energetica, quella edilizia. La crisi di sostenibilità impone un profondo ripensamento di questi settori, che non sarà né rapido né indolore. L’innovazione in queste aree è stata finora frenata non dalla mancanza di soluzioni tecnologiche, ma dal timore che la “distruzione creativa” mettesse in pericolo posti di lavoro e poteri economici consolidati. In questo senso, la crisi ci offre un’opportunità che non possiamo sprecare.
La terza questione riguarda la crescente instabilità delle economie basate sulla conoscenza. La crisi che stiamo attraversando non va dunque confusa con uno dei tanti episodi ciclici, bensì come il segnale di una condizione di incertezza strutturale con cui dobbiamo convivere.
Il pericolo è che per evitare tale condizione di incertezza, ci si affidi al controllo politico dello sviluppo, limitando in questo modo i potenziali di innovazione che l’economia della conoscenza e della globalizzazione possono portare. Dobbiamo semmai imparare a controllare ex-ante l’incertezza, aiutando la definizione di regole concorrenziali globali e costruendo sistemi di welfare che permettano di gestire i rischi sociali in modo più flessibile, universalistico e responsabile. Per uscire dalla crisi non serve, dunque, uno “stato imprenditore” – con il suo corollario di burocrazia, protezionismo e bassa crescita – bensì un’economia imprenditoriale, nella quale accrescere gli investimenti a rischio anche per produrre beni collettivi e qualità sociale, come cultura, salute, ambiente. Guardare la crisi con altri occhi può diventare, allora, molto più di un esercizio di analisi economica.
Giancarlo
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