Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell’Istat, ad un convegno sul bilancio sociale del Paese promosso dal ministero della Solidarieta’ Sociale, ha riferito che “7 giovani su 10, tra i 20 e i 34 anni, sono costretti a vivere in famiglia perche’ sono lavoratori precari e non hanno le disponibilita’ economiche per andare a vivere da soli”. Inoltre “sono sempre di piu’ i giovani fra i 30 e i 34 anni che restano a casa con i genitori: erano il 19,9% nel 1995, sono stati il 29,5% nel 2005”. La transizione alla condizione di adulto più comune in Italia consiste nel rimanere a casa dei genitori fino ai trent’anni, per poi uscire direttamente in coincidenza del matrimonio.
Questo quadro, a mio parere sconfortante, è imputabile al precariato crescente? Il tasso di precarietà del lavoratore italiano, in realtà, è non solo del tutto in linea con quello europeo, ma anzi è mediamente più basso. Come spiegare dunque il fatto che il tasso di indipendenza dei giovani italiani sia il più basso d’Europa?
Innanzitutto, in Italia i rapporti stipendio/costo della casa e stipendio/costo dell’affitto sono tra i più bassi d’Europa: se non si trova il modo di riequilibrare questi rapporti la nostra società è destinata all’immobilismo.
Tuttavia, la scarsa indipendenza dei giovani italiani ha sicuramente una matrice anche culturale. Per noi latini fare un figlio rappresenta un contratto a tempo indeterminato. Il passaggio tardivo e diretto dalle cure della madre a quelle del partner, senza fasi intermedie di vita da single o condivisione con coetanei di un appartamento, è un fattore negativo non solo per la maturazione e l’indipendenza dei giovani, ma rappresenta anche un fattore inibitore da un punto di vista dello spirito imprenditoriale e creativo delle nuove generazioni. Vivere da soli aiuta a confrontarsi con la realtà, senza lo schermo genitoriale, e l’eventuale convivenza con coetanei con interessi simili ai propri può stimolare la voglia di intraprendere insieme un progetto innovativo.
Cosa fare dunque per aiutare i giovani a rendersi indipendenti e ad entrare prima nel mondo del lavoro? Propongo alcune idee:
- iniziare l’Università a 18 anni (non a 19 come adesso); studiare 4 anni, come in America, e a 22 essere pronti a lavorare e mantenersi. A 25 anni, dopo qualche anno di lavoro e qualche risparmio da parte, un master specializzante acquista molto più senso;
- obbligare per legge a dare una retribuzione congrua a stagisti e praticanti: è probabile che così facendo molte imprese e studi diminuirebbero il numero degli stagisti, ma il giovane a gratis è una frustrante anomalia italiana che va superata;
- portare i ragazzi fuori di casa implica anche una più coraggiosa politica abitativa da parte degli enti locali e delle università;
- i cervelli vanno raggruppati e non dispersi: l’esperienza delle sedi universitarie distaccate ha consentito ai docenti, ma soprattutto agli studenti di non muoversi da casa. Garantire a tutti di poter studiare nella propria città natale non mi sembra prioritario per l’Italia (anzi perpetua la non-indipendenza dei ragazzi).
Lorenzo Gui
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